Al tempo della guerra - ANA Gruppo Alpini di Novara

IL CUORE PER AMARE E LE BRACCIA PER LAVORARE
GLI ALPINI ARRIVANO A PIEDI LA DOVE GIUNGE SOLTANTO LA FEDE ALATA
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Al tempo della guerra
Com'era la vita nelle trincee quando le armi tacevano? Quali erano le condizioni di vita della popolazione civile nelle retrovie e nel resto dell'Italia? Come avvenne la fuga dopo la disfatta di Caporetto?
Molto spesso le ricerche e i libri di storia hanno dato risalto ai grandi avvenimenti della Grande Guerra, agli atti di eroismo, alle imprese di singole persone divenute poi simboli patriottici. Al contrario, la vita quotidiana delle persone e dei soldati è stata tralasciata o considerata come materia per gli specialisti.
Si tratta invece di un insieme di approfondimenti e curiosità che danno un quadro completo di un periodo molto importante della storia contemporanea. La Grande Guerra non va ristretta infatti alle vicende belliche, a quelle politiche o alle innovazioni nel campo tecnologico e militare.
I soldati, oltre a combattere, dovevano vivere nelle trincee e convivere con tutte le problematiche facilmente immaginabili come la mancanza di un letto o di un riparo nei giorni di pioggia. Situazioni di disagio e di sofferenza che si riflettevano poi anche nelle persone comuni, nelle donne, giovani, anziani e bambini di tutta Italia che videro i propri figli, mariti o padri partire per il fronte e spesso non tornare.
Ma oltre questo aspetto emotivo, la popolazione civile si può considerare a tutti gli effetti come un'altra protagonista della Grande Guerra. Tutti furono coinvolti in questo avvenimento collettivo. I più interessati furono, ovviamente, coloro che vissero nella zona delle retrovie, in quella fetta di territorio vicina al fronte che per questioni logistiche fu pesantemente militarizzata.
Ma non vanno dimenticati nemmeno gli abitanti e le famiglie del resto del Paese i quali furono inquadrati nel cosiddetto "fronte interno" e diedero un forte contributo agli stravolgimenti sociali e culturali di quel periodo.
Uno sguardo particolare poi meritano le vicende conseguenti alla disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) quando alla sconfitta militare si sommò la tragedia delle popolazioni friulane e di parte del Veneto. Molti decisero di abbandonare le loro case trasferendosi in altre regioni italiane. Altri invece restarono e subirono la durissima occupazione austro-ungarica terminata l'anno successivo.
La vita nelle trincee
Le trincee sono state uno dei simboli della Grande Guerra. Quando i vari governi europei decisero di scendere in campo, tutti erano convinti che si sarebbe trattata di una guerra veloce in cui era essenziale sfruttare il fattore temporale.
Invece, dopo poche settimane, i diversi fronti europei si stabilizzarono ed iniziarono ad essere scavate centinaia di chilometri di trincee, dal nord della Francia fino all'Europa orientale, nell'attuale Polonia e nei Balcani. Questi lunghi corridoi, profondi poco meno di due metri, comparvero da subito anche sul fronte italiano, in pianura, sull'altopiano carsico e in alta montagna, in mezzo alla neve. Nonostante il Governo Salandra e il generale Luigi Cadorna avessero dimostrato uno straordinario ottimismo il 24 maggio 1915, la guerra assunse le stesse caratteristiche del resto d'Europa.
Nei musei all'aperto e negli itinerari che oggi si possono visitare, le trincee sono le tracce più significative di quanto successe tra il 1915 ed il 1918. In questo lungo periodo furono la "casa" dei soldati, il luogo dove i militari impegnati al fronte vissero per settimane (se non addirittura mesi) tra una battaglia e l'altra.
Nasce quindi spontaneo chiedersi come vennero costruite le trincee, quale fosse la vita di un soldato al loro interno, come dormissero, mangiassero, e quali fossero i problemi di tutti i giorni. In molte testimonianze si possono leggere gli stati d'animo, le emozioni, le paure, la voglia di scappare da quell'inferno. Ma si possono anche cogliere le cronache di vita reale, di come fosse stata organizzata questa convivenza sul fronte, vicino al proprio nemico.
Si scoprono così le dure regole imposte dai comandi (specie nel periodo di Cadorna) e le punizioni per coloro che si rifiutavano di combattere. Oppure rendersi conto di come molti uomini sentissero il bisogno di affidarsi alla religione e alla fede. Un approfondimento particolare meritano poi gli episodi di "contatto pacifico"fra soldati nemici, quando dalle trincee non venivano sparati dei proiettili ma si scambiavano beni di prima necessità o accordi per una pace temporanea.

La costruzione delle strutture militari sul Carso isontino
Una delle zone più combattute del fronte italiano durante la Grande Guerra fu la zona del Carso isontino, l'altopiano pietroso che da Gorizia scende fino alle spalle di Monfalcone e all'attuale provincia di Trieste. I musei all'aperto di questa zona sono oggi delle ottime testimonianze, delle terribili battaglie dove migliaia di uomini si sono fronteggiati per oltre due anni. Si possono vedere ancora trincee, baraccamenti, postazioni per l'artiglieria, strade e mulattiere utilizzate dai soldati per trasportare i materiali dalle retrovie al fronte.
Ma oltre a scoprire queste tracce, è interessante anche capire come e quando queste strutture siano state costruite.
Dopo il primo avanzamento in territorio asburgico da parte della Terza Armata, il generale Luigi Cadorna ordinò la costruzione di una prima linea difensiva arretrata. Nel luglio del 1915 circa 65.000 operai iniziarono a lavorare lungo la direttrice che da Gorizia scendeva verso la costa adriatica attraversando i fiumi Versa, Torre e Isonzo.
Furono create delle teste di ponte all'altezza di Romans, Villesse e Pieris e creati i primi campi trincerati di fronte a Gorizia e Monfalcone. Nei mesi successivi le trincee furono rafforzate con il cemento armato mentre nei paesi della pianura friulana (che formavano la retrovia) vennero previste delle piccole difese (formate da trinceramenti e appostamenti per armi pesanti) non collegate tra di loro. Infine, dopo i primi piccoli avanzamenti nelle zone del Monte San Michele, del Monte Sei Busi e Monfalcone, si delinearono anche le tre linee offensive del fronte utilizzate fino al 1916.
Tra la Nona e la Decima Battaglia dell'Isonzo l'esercito italiano avanzò all'interno del Vallone del Carso, a Oppacchiasella, nei pressi del Dosso del Faiti e verso la zona di Doberdò del Lago e Iamiano. In questo modo le prime linee si spostarono più avanti e il fronte "pedecarsico" (che attraversava Sagrado, Redipuglia, Vermegliano e la zona settentrionale di Monfalcone) fu cementificato dagli operai.
In questo periodo inoltre, sfruttando anche i lavori effettuati precedentemente dai soldati asburgici, furono creati i sistemi di trincee blindate che dal Monte San Michele attraversavano il Carso isontino fino a toccare Doberdò e Iamiano. Duemila operai allargarono le strade che collegavano questa zona in modo da permettere ai materiali e ai rinforzi di giungere con rapidità dalle retrovie.
Gli ultimi lavori effettuati in zona furono quelli nell'estate del 1917 alle spalle di Monfalcone e sul Vallone con la costruzione di strade, gallerie, appostamenti e baraccamenti. Tutto questo grande lavoro fu perso in pochi giorni alla fine dell'ottobre 1917 quando la Dodicesima Battaglia dell'Isonzo si trasformò nella disfatta di Caporetto.

Dentro la trincea
Tutto era difficile all'interno di una trincea. Durante il periodo bellico i soldati dovevano affrontare dei momenti durissimi in prima linea, in strutture più o meno provvisorie, con il costante terrore di essere prima o poi colpiti da qualche cecchino o dal ricevere l'ordine di prepararsi all'assalto. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita, come dimostrano i molti casi di malattie mentali sviluppate già durante la guerra o appena tornati nelle proprie case.
Sin dall'inizio la preparazione dell'esercito fu assolutamente insufficiente rispetto a quelle che erano le caratteristiche di questa guerra. Sia il Comando Supremo che il Governo non seguirono i consigli presenti nelle varie relazioni militari alleate e non badarono nemmeno a preparare i propri uomini ad un conflitto di lungo periodo.
Certi che Trieste sarebbe stata conquistata nel giro di poche settimane, i soldati si ritrovarono con le sole dotazioni estive e con strumenti tutt'altro che moderni.
Molti soldati, nel primo anno di guerra, combatterono con in testa dei semplici berretti, ornamenti tipici del XIX secolo, che non potevano di certo fermare le pallottole sparate dalle trincee nemiche o dai cecchini. Nessuno poi, all'inizio, spiegò ai soldati italiani di restare accovacciati nelle trincee e di non sporgersi. Ancora più imbarazzante fu la mancanza di pinze tagliafili in grado di creare velocemente dei varchi tra i reticolati nemici, posizionati tra la prima linea offensiva e la prima linea difensiva. Più un soldato perdeva tempo in questa operazione, più probabilità c'erano di essere colpiti dai nemici.
I problemi erano numerosi anche quando le armi tacevano. Le scarpe erano del tutto inadatte per resistere al fango o al terreno pietroso del Carso o delle montagne. Nel giro di poche settimane si trasformavano in suole di legno a malapena indossabili e questo ovviamente provocava dei seri problemi ai piedi dei soldati. Le ferite erano molto frequenti così come i congelamenti, curati con lo stesso grasso che avrebbe dovuto servire per lucidare le calzature. Le borracce per l'acqua erano di legno (assolutamente anti-igieniche) mentre le tende per dormire (quando c'erano) erano inutilizzabili con la pioggia. Molto spesso i soldati furono costretti a crearsi degli alloggi di fortuna per la notte, in buche coperte da un semplice telo, in anfratti del terreno dove si dormiva gli uni attaccati agli altri per disperdere il meno calore possibile.

La vita dei soldati in montagna
Uno degli aspetti più affascinanti della Grande Guerra fu la vita nelle trincee e negli appostamenti di alta montagna. Mai, prima di allora, si erano combattute delle battaglie ad altitudini così elevate. Tra le cime del Massiccio dell'Adamello (al confine tra Lombardia e Alto Adige) italiani e austro-ungarici si trovarono uno di fronte all'altro ad oltre 3000 metri di altezza. Una situazione simile si verificò anche nella zona tra Trentino e Veneto, nei pressi della Marmolada, nel settore orientale del Lagorai, in tutta la parte delle Dolomiti Orientali e tra le vette delle Alpi Carniche e della Val Dogna.
Anche se in queste luoghi non mancarono brigate di semplice fanteria (del tutto inadatte ad affrontare situazioni del genere), la maggior parte dei combattenti appartenevano al corpo degli Alpini. Si trattava di giovani reclutati nelle zone di montagna, abituati a spostarsi su questi terreni, a sopportare le temperature rigide e ad ubbidire agli ordini senza porsi troppe domande. Per oltre due anni rimasero in quota combattendo, trasportando materiali, armi, attrezzature, viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e sistemi trincerati che ancora oggi sono in grado di sorprendere ed emozionare. In alcuni casi addirittura gli acquartieramenti furono costruiti nel cuore dei ghiacciai, specie attorno al Passo Fedaia e al Passo San Pellegrino.
Lo stupore aumenta nello scoprire come gli equipaggiamenti distribuiti agli Alpini furono assolutamente inadatti alla vita in quota. Nonostante il clima estremo (non erano rare le nevicate estive), nella maggior parte dei baraccamenti la sola fonte di riscaldamento erano i piccoli fornelletti per le vivande. I vestiti di lana erano pochi e molti dovettero costruirsi degli occhiali da sole (utilizzando dell'alluminio) per prevenire i danni dei raggi solari. Inoltre per tutto il 1915 i soldati combatterono con le loro uniformi grigio-verdi che, in mezzo al manto nevoso, erano facilmente individuabili dai nemici. Solamente l'anno successivo furono distribuite le prime tute bianche che garantivano una maggiore mimetizzazione.
Ma oltre ai soldati in prima linea, la guerra in montagna ebbe anche degli altri protagonisti. Si trattò dei cosiddetti portatori, i quali volontariamente si arruolarono per trasportare dalle retrovie (su pesanti ceste) armi, munizioni, materiale e cibo ai soldati in cima alle montagne. Essendo però la gran parte degli uomini impegnati in guerra, in alcuni casi questo ruolo fu ricoperto dalle donne. L'esempio migliore è quello delle Portatrici Carniche, attive nella Zona Carnia e che sono oggi ricordate soprattutto a Timau, il paese nei pressi del Pal Piccolo e del Freikofel dove riposa Maria Plozner Mentil, uccisa nel febbraio 1916 proprio durante una delle sue ascese verso la prima linea.

La cucina in trincea
Uno dei grandi problemi durante la Grande Guerra fu quello dell'alimentazione sia per la popolazione civile che per i militari. Le battaglie, la militarizzazione dei territori e le razzie (specie nel Friuli e Veneto orientale dopo Caporetto) provocarono devastazioni nei raccolti e lo svuotamento dei magazzini. Le famiglie nelle retrovie furono vittime di carestie e di malattie dovute a carenze alimentari gravi (come la pellagra) mentre il rancio dei soldati diventava ogni giorno più esiguo e scadente.
La scarsa qualità era dovuta alla scelta di cucinare i pasti nelle retrovie e trasportarli durante la notte verso le linee avanzate. Così facendo, la pasta o il riso contenuti nelle grandi casseruole arrivavano in trincea come blocchi collosi. Il brodo si raffreddava e spesso si trasformava in gelatina mentre la carne ed il pane, una volta giunti a destinazione, erano duri come pietre. Scaldarlo una seconda volta non faceva che peggiorare la situazione, rendendo il cibo praticamente impossibile da mangiare.
Il problema della qualità era parzialmente sopperito dalle quantità distribuite. A differenza infatti del rancio austro-ungarico (molto più esiguo, specialmente nell'ultimo biennio), l'esercito italiano dava ogni giorno ai suoi soldati 600 grammi di pane, 100 grammi di carne e pasta (o riso),frutta e verdura (a volte), un quarto di vino e del caffè. L'acqua potabile invece era un problema e raramente superava il mezzo litro al giorno.
Per coloro che si trovavano in prima linea la gavetta (o gamella) era leggermente più grande. Prima degli assalti inoltre venivano distribuite anche delle dosi più consistenti con l'aggiunta di gallette, scatole di carne, cioccolato e liquori. Oggi in diversi musei si possono ancora ammirare i contenitori di metallo che custodivano i 220 grammi di carne o, a volte, delle alici sott'olio e frutta candita. Ogni scatola era decorata con motti patriottici come "Savoia!" o "Antipasto finissimo Trento e Trieste".

Fuggire dalla trincea
Per molti ragazzi nati alla fine del XIX secolo, la Grande Guerra fu l'avvenimento che segnò per sempre la loro giovinezza. La prima classe ad essere chiamata alle armi fu quella del 1896 a cui seguirono via via tutte le altre fino ad arrivare alla famosa "classe '99", protagonista delle battaglie del 1918 sul Monte Grappa, sul Montello e lungo il Piave. Ma come successe in altri casi, anche questa guerra ebbe i suoi disertori e renitenti, coloro che pur di non entrare nell'esercito e combattere scelsero di scappare.
Chi prese questa strada doveva per forza di cose fuggire all'estero, possibilmente oltreoceano, dove le possibilità di essere catturati erano minori. È stato calcolato che dei circa 470mila renitenti, almeno 370mila avessero scelto di emigrare e di non rientrare più in Italia. In Meridione invece, dove le zone rurali erano più abbondanti e la presenza dello Stato meno capillare, i ragazzi sfuggiti alla leva si organizzarono nelle campagne sopravvivendo tramite degli espedienti.
Altri invece decisero di disertare. Inizialmente, 2000 ragazzi si presentarono regolarmente alla visita medica ma, una volta arruolati, si resero irreperibili. Il numero aumentò considerevolmente nel corso della guerra: disertare infatti molte volte coincideva col consegnarsi al nemico, sperando di trovare nei campi di prigionia austro-ungarici (e poi tedeschi) delle condizioni di vita migliori rispetto a quelle in trincea.
Ma c'erano anche altri modi per cercare di fuggire. Sono infatti migliaia le testimonianze di soldati che, una volta giunti in Friuli o in Veneto, si finsero malati, pazzi oppure si auto inflissero delle ferite. I casi più comuni furono quelle da arma da fuoco, procuratesi su un piede o su una mano in modo da ottenere perlomeno una licenza dalla prima linea di alcune settimane. Ma non mancarono casi più gravi come bruciature, lesioni agli occhi e alle orecchie, gonfiori provocati da iniezioni sottopelle e l'assunzione di medicinali che potevano provocare delle reazioni allergiche. Ovviamente, più questi casi si moltiplicarono, più le commissioni mediche che giudicavano questi casi si fecero severe negando quindi le licenze.
Moltissimi perciò cercarono di ingannare i medici dell'esercito simulando delle malattie mentali. "La malattia mentale rappresentava una forma di fuga, l'estremo rifugio per soldati che non avevano altro mezzo per sottrarsi all'inesorabile meccanismo della guerra, agli arbitrii e alle angherie dei superiori e al pericolo di vita".
A differenza delle ferite, i medici fecero molta più difficoltà a capire chi stesse realmente simulando e chi no. La conoscenza ancora superficiale della psiche umana e le tecniche primitive permisero a molti soldati di essere riformati e di tornare nelle proprie case. Altri, meno abili nel simulare un'infermità o semplicemente meno fortunati, rimasero invece nei campi di battaglia.

Il duro trattamento di Cadorna
Nel corso della guerra gli equipaggiamenti e la vita nelle trincee migliorarono sensibilmente. Dopo il primo anno, nella primavera del 1916 iniziarono ad essere distribuite nuove dotazioni che contribuirono a rendere meno dura la vita sul fronte. Apparvero i primi elmetti, consegnati inizialmente ai reparti addetti a tagliare i fili dei reticolati e poi anche alle sentinelle. Le calzature diventarono più moderne e robuste ed i reparti impegnati in montagna ricevettero degli scarponi chiodati, molto più adatti per gli spostamenti. Entro l'inverno comparvero anche i primi sovrascarpe pesanti ed i primi cappotti.
A migliorare non furono solamente gli equipaggiamenti, ma anche le tecniche di combattimento. Nel 1915 il generale Luigi Cadorna era rimasto fedele a certi schematismi tipici del secolo precedente in cui gli ufficiali guidavano l'assalto seguiti dai propri soldati dotati di baionetta e zaino. La presenza dei reticolati però trasformava tutti questi uomini in facili bersagli da colpire. L'anno successivo il Comando Supremo decise di portare alcune modifiche e fu permesso agli ufficiali di rimanere alle spalle della fanteria. Quest'ultima, durante gli assalti, poté lasciare i propri zaini nelle trincee in modo da avere una maggiore agilità.
Molti altri aspetti invece rimasero identici e, in particolare, la crudeltà con cui gli alti gradi militari decidevano della sorte dei propri uomini. Cadorna, un personaggio senza dubbio carismatico ma anche controverso, rimase convinto per tutta la durata del suo incarico che l'unico modo utile e giusto per condurre una guerra fosse l'attacco ad ogni costo, senza badare alle conseguenze. I soldati perciò dovevano uscire dalle trincee appena giungeva l'ordine. Chi esitava o si rifiutava, veniva colpito dagli spari dei carabinieri posizionati alle loro spalle.
Allo stesso modo proseguì la pesante censura all'interno dell'esercito. Sempre per ordine del Capo del Comando Supremo, i soldati non potevano leggere giornali non autorizzati. Grazie a questo accorgimento, le opinioni (specie quelle critiche) degli inviati di guerra rimanevano fuori dalle trincee. Allo stesso modo, le lettere scritte ai propri famigliari venivano controllate per evitare che nel resto del Paese si diffondesse l'idea che la guerra non stava andando secondo i piani. Parallelamente, vennero ridotti al minimo anche i periodi di licenza.

Le punizioni
Uno degli aspetti meno conosciuti della vita in trincea e in retrovia fu quello delle punizioni e dei processi ai soldati. Si trattò di un fenomeno diffuso che coinvolse indistintamente centinaia (e forse migliaia) di uomini.
Luigi Cadorna infatti, sin dall'inizio della guerra, aveva ordinato la massima severità per il mantenimento della disciplina e il rispetto dell'autorità. Atteggiamento che, nel corso del conflitto, si irrigidì sempre di più assumendo spesso i contorni di una spietata crudeltà. I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto ad esempio potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri mentre la censura in trincea divenne ogni giorno più oppressiva. Qualsiasi lettera scritta dai soldati non poteva contenere informazioni diverse da quelle pubblicate dai giornali italiani e doveva trasmettere entusiasmo per la guerra. Chi non rispettava queste indicazioni rischiava la condanna al carcere militare.
L'aspetto più tragico e crudele furono però le condanne a morte a carico dei soldati. È stato calcolato che tra l'ottobre del 1915 e l'ottobre del 1917 furono eseguite circa 140 esecuzioni capitali dovute ai motivi più disparati. Inizialmente questo provvedimento fu preso solo in casi di estrema gravità (ad esempio per diserzione o spionaggio) ma successivamente si estese anche a casi apparentemente meno gravi. Un soldato poteva essere fucilato per essere ritornato in ritardo dopo una licenza oppure per essere stato sorpreso a riferire o scrivere una frase ingiuriosa contro un suo superiore. Stessa sorte venne prevista per tutti quegli ufficiali che, anche per un solo momento, avessero dubitato della tattica imposta dal Comando Supremo.
Più la Grande Guerra andava avanti, più gli episodi di crudeltà si moltiplicarono. Ovunque si verificassero disordini, piccole proteste o episodi di insofferenza verso le decisioni prese dai superiori si assistette a delle condanne a morte.
Nei casi di un reato commesso da un gruppo di soldati (come una brigata), la strada prescelta era quella della decimazione.
Uno dei casi più celebri fu quello della Brigata Catanzaro, avvenuto a Santa Maria la Longa nel luglio del 1917. I soldati, dopo aver combattuto in prima linea sul Carso isontino, sull'Altopiano di Asiago e poi nella zona del Monte Ermada, furono trasportati nelle retrovie a riposare.
Gli uomini erano stremati: da molto tempo le licenze erano state sospese e la difficile vita in trincea li provò notevolmente. Dopo pochi giorni, anziché essere trasferiti in un settore più tranquillo, gli fu ordinato di riprendere la strada verso il terribile Monte Ermada. A quel punto scoppiò la rivolta: 9 soldati e due ufficiali vennero colpiti a morte e solo l'intervento dei blindati e dell'artiglieria leggera fermò l'ira della Brigata Catanzaro. Ristabilita la calma, i comandi militari decisero di dare un messaggio esemplare: 12 soldati, scelti a caso, vennero giustiziati e 123 furono mandati davanti al Tribunale Militare.

La religione in trincea
La vita sul fronte costrinse gli uomini a convivere continuamente con la presenza della morte. In qualsiasi momento del giorno e della notte, all'improvviso, un proiettile o una scheggia di granata avrebbero potuto togliere la vita. Appare quindi quasi naturale, in mezzo a questa situazione irreale, la presenza della religione, vissuta come fede o più semplicemente come superstizione.
Questa necessità nella vita di un soldato fu risolta dalla presenza dei cappellani militari nell'esercito e dalla massiccia distribuzione di santini e materiale devozionale.
I primi, banditi dall'esercito dopo l'unificazione italiana, vennero riammessi nel 1915 da Cadorna in vista dello scoppio della guerra. Oltre 2200 cappellani militari ingrossarono così le file dell'esercito a cui si aggiunsero anche i preti ed i chierici arruolati nelle retrovie. In tutto perciò le presenze religiose sul fronte ammontarono a circa 20.000 uomini.
In alcuni musei invece è possibile trovare alcuni esempi del materiale devozionale distribuito in grandissima quantità nelle linee del fronte. Milioni di santini, cartoline e libri di preghiere furono stampati grazie al lavoro di alcune istituzioni religiose come la Santa Lega Eucaristica e l'Opera per la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Immagini religiose, allegorie, preghiere e suppliche furono i soggetti principali che i soldati potevano vedere e leggere ogni giorno.
In questi cartoncini si trovavano stampate ad esempio la preghiera di pace di Papa Benedetto XV e l'immagine di Maria come Regina della Pace che invitava a rispettare il nemico dopo la sua uccisione. Oppure si cercava di tranquillizzare il soldato con parole di accettazione per la morte vista come una fatalità, consapevole che la Madonna avrebbe comunque vegliato su di lui. I più scaramantici invece appendevano, all'altezza del cuore, un cartoncino con scritto "Fermati!". Si trattava di una sorta di supplica (e speranza) rivolta all'eventuale pallottola nemica.
Dopo la disfatta di Caporetto anche i santini e le cartine devozionali cambiarono rispetto al passato: la censura venne applicata con rigore in modo che venissero diffusi solamente immagini religiose dal valore chiaramente patriottico. La preghiera di Papa Benedetto XV fu considerata troppo pacifista e venne quindi vietata mentre i cappellani militari, durante le predicazioni, non potevano più usare la parola "Pace". Ciononostante, questo tipo di materiale riuscì comunque ad arrivare nelle mani e sotto gli occhi dei soldati fino all'ultima battaglia della Grande Guerra.

I contatti con le trincee nemiche
Spesso si è portati a pensare alla guerra come ad un avvenimento violento dove due contendenti combattono fino all'eliminazione del proprio avversario senza mostrare nessun segno di pietà. La realtà però fu diversa: i soldati di tutti i paesi, accomunati dallo stesso destino, dalle fatiche quotidiane della vita in trincea e da un senso di umanità ancora vivo, furono in grado di stabilire dei contatti pacifici con i nemici e di "proclamare", in certe occasioni, delle tregue. La più celebre tra queste fu senza dubbio la cosiddetta "Tregua di Natale del 1914" quando sul fronte occidentale i soldati francesi e tedeschi si scambiarono gli auguri di Natale e dei piccoli doni, sospendendo i combattimenti per una settimana.
Questi episodi avvennero anche sul fronte italiano, specialmente in quelle zone del fronte dove la distanza tra le linee trincerate era esigua (ad esempio sulla cima del Pal Piccolo, in Carnia). Questi contatti spesso servivano per barattare del cibo o oggetti che il proprio esercito non distribuiva. Gli austro-ungarici ad esempio richiedevano soprattutto qualcosa da mangiare data la situazione precaria del loro rancio. Ogni soldato aveva diritto infatti a soli 250 grammi di pane, 100 di pasta e 80 di carne, quindi molto meno rispetto agli italiani. Al contrario i soldati dell'Impero possedevano quasi sempre del tabacco che scarseggiava tra gli italiani. Il tutto doveva essere compiuto con la massima discrezione: chi veniva scoperto poteva essere denunciato di collusione con il nemico e punito con 10 anni di prigionia.

Le nuovi armi
Sono diversi i motivi per cui la prima Guerra Mondiale è stata definita, da storici e non, come "Grande Guerra". La parola "grande" può essere intesa con diversi significati: dall'area del mondo coinvolta nel conflitto (ci furono battaglie anche in Asia, in Africa e nei mari) ai danni immensi che questa guerra ha provocato.
Ma "grande" può anche fare tranquillamente riferimento ad uno degli aspetti più tragici di questo evento, ovvero il numero di morti che ha provocato. Secondo i dati statistici più attendibili, si presume che in tutta Europa i decessi direttamente collegati ai combattimenti si aggirino attorno ai 10 milioni. Una cifra enorme che fino a quel momento non si era mai verificata e che oggi è seconda solo alla Seconda Guerra Mondiale.
Come spiegare questo numero?
Innanzitutto, bisogna pensare che il numero di uomini coinvolti nei vari fronti fu eccezionale: si presume che tra il 1914 e il 1918 vennero chiamati alle armi circa 70 milioni di soldati, di cui 60 solo in Europa. A ciò va aggiunto come la medicina, sia per quanto riguarda le malattie che le ferite, non aveva fatto molti progressi rispetto al secolo precedente: gli antibiotici non erano stati ancora inventati e la mancanza di igiene e ambienti sterili non faceva che aumentare la mortalità.
Ma in realtà, il motivo principale del grande numero di decessi della Grande Guerra fu l'introduzione di nuove armi che, in alcuni casi, possono tranquillamente essere definite come armi di distruzione di massa.
A cavallo del XIX e XX secolo in buona parte dell'Europa e degli Stati Uniti era in pieno svolgimento la Seconda Rivoluzione Industriale. In quegli anni le scoperte scientifiche in campi come la fisica e la chimica portarono a delle invenzioni che utilizziamo ancora oggi (come ad esempio il motore a scoppio, l'aeronautica, l'elettricità, le comunicazioni radio ed il telefono) e che dettero un impulso fondamentale alle società di quel periodo.
Parallelamente, alcune di queste innovazioni vennero applicate anche nel campo militare.
Comparvero così aerei in grado di bombardare le linee nemiche e le città, carri armati capaci di superare barriere fino a quel momento insuperabili, bombe a mano dall'effetto dirompente se gettate in una trincea o in una cavità fino ad arrivare ai terribili lanciafiamme e alle bombe chimiche.
Parallelamente, il potenziale distruttivo e l'efficacia di queste armi aumentarono per la scarsa attenzione, da parte di quasi tutti gli eserciti, nel creare delle "difese" adatte a queste novità e nel cambiare le tattiche militari, ormai obsolete e legate più alle guerre dell'Ottocento.

Gli aerei
Una delle più grandi novità tecnologiche introdotte nella Grande Guerra fu l'utilizzo dell'aviazione come strumento militare. La costruzione, nel 1903, del primo mezzo in grado di alzarsi da terra fu il primo atto di una rivoluzione totale sia nel campo civile che militare. Niente più fu come prima.
In realtà, a livello militare molti ufficiali rimasero inizialmente indifferenti non intuendo subito i grandi vantaggi che si sarebbero ottenuti dall'impiego dell'aereo. In Italia il primo a capirlo fu il maggiore Giulio Douhet il quale fu da subito fermamente convinto che l'utilizzo dell'aviazione sarebbe stato decisivo in una futura guerra. Nacque così, alla fine del primo decennio del '900, la prima squadra di aviazione militare italiana, composta da bombardieri e da caccia.
I primi furono prodotti da Giovanni Caproni, un ingegnere trentino che nel 1908 iniziò a brevettare questo tipo di velivoli (ricordati con la sigla "Ca." ed un numero). Nel corso della guerra vennero effettuati vari perfezionamenti fino a giungere, nel 1918, al famoso bombardiere "Ca.46" in grado di volare a 150 km/h e di trasportare 500 chili di bombe da sganciare sugli obiettivi nemici. Un grande vantaggio ed una grande innovazione che fece dell'Italia lo Stato più all'avanguardia in questo ambito.
I caccia, gli aerei ad uno o due posti dotati di mitragliatrice per i combattimenti aerei, furono invece meno utilizzati. Mentre gli altri Stati ne produssero diverse centinaia, l'Italia inizialmente preferì non fabbricarli ed importò alcuni Niuport francesi. Solo nel 1916 comparvero sui cieli dei caccia italiani, come gli SVA e gli Hanriot, in grado di volare ad oltre 200 km/h e dotati di mitragliatrici calibro 7,7.
Lo sviluppo di questi modelli però non era sufficiente per rendere gli aerei delle armi efficaci in guerra. A renderli tali furono i primi aviatori e in particolare i cosiddetti "Assi dell'aviazione", i piloti che con la loro abilità seppero dare un contributo decisivo per le sorti di una battaglia. Un appellativo che veniva assegnato solitamente a chi riusciva ad abbattere più di cinque aerei nemici. Il più famoso di tutti fu il tedesco Manfred von Richtofen, soprannominato "l'Asso degli Assi" e"Barone Rosso", in grado di abbattere 80 velivoli tra il 1914 ed il 1918. In Italia le gesta più famose furono quelle di Francesco Baracca (medaglia d'oro al Valore Militare), Fulco Ruffo di Calabria, Luigi Gori e Massimo Pagliano. Leggendaria fu anche l'azione propagandistica intrapresa da Gabriele d'Annunzio il 9 agosto 1918 sui cieli di Vienna con uno SVA 5.

I carri armati
Tra le tante novità che fecero la propria comparsa nella Grande Guerra ci furono i primi modelli di carri armati. Pensati già alla fine del XVIII secolo durante la Prima Rivoluzione Industriale, i prototipi furono costruiti tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX quando venne perfezionato in Germania il progetto del motore a scoppio applicato alle vetture.
Proprio in corrispondenza degli anni del conflitto, l'industria inglese riuscì a sviluppare il primo modello che fece la sua comparsa sul fronte occidentale. Si trattava di una grande macchina blindata dotata di cingoli in grado di avanzare in diversi tipi di terreno e superare ostacoli come trincee larghe due metri. Al suo interno c'era spazio per 10 soldati che potevano guidarlo e utilizzare le mitragliatrici installate al suo esterno. Ma questi primi carri armati, comparsi nel 1916, furono presto abbandonati per gravi problemi strutturali (ad esempio non erano stati previsti tubi di scappamento) e sostituiti con dei nuovi prototipi nel 1917 e nel 1918, risultando decisivi in molte battaglie sul fronte occidentale. Curiosamente, vennero prodotti in grande quantità da inglesi e francesi ma non dai tedeschi, solitamente molto attenti nei campi delle innovazioni.
Sul fronte italiano praticamente non comparvero mai. Gli austro-ungarici non ebbero mai le forze ed i mezzi per produrre dei modelli, mentre l'Italia nel 1918 fece scendere in campo sei modelli sperimentali, i Fiat 3000, prodotti dall'industria torinese ma perfezionati solo negli anni '20. Al loro posto non era raro vedere delle autoblindo, simili ai carri armati ma dotati di ruote al posto dei cingoli.

Le bombe a mano
Le bombe a mano furono un'altra arma molto utilizzata dagli eserciti della Grande Guerra durante gli assalti alle trincee nemiche. I soldati, quando arrivavano a qualche decina di metri dalle posizioni nemiche, le lanciavano provocando grandi danni con la loro deflagrazione. Gli addetti a questi attacchi furono i Granatieri i quali avevano il compito di avanzare verso le linee nemiche dopo che le squadre tagliafili avevano creato una breccia tra i reticolati nemici. Furono anche utilizzate in larga scala per eliminare la presenza nemica dalle grotte, ricoveri e gallerie.
Potevano avere un doppio innesco: a tempo (con una miccia) o a percussione.
Per questioni pratiche, i soldati preferivano di gran lunghe le prime in quanto le seconde potevano esplodere anche prima di essere lanciate, con un urto accidentale durante l'assalto o per una distrazione.
Nonostante fossero già state inventate da diversi anni, negli anni della Grande Guerra le bombe a mano subirono profondi miglioramenti e diventarono sempre di più delle armi micidiali per l'offensiva. Nel 1915 gli inglesi aggiunsero all'esplosivo anche delle schegge metalliche che, una volta liberate, provocavano gravi ferite ai soldati nelle trincee. I tedeschi caricarono alcuni modelli con gas e liquidi velenosi, sintetizzando così un'arma esplosiva con una chimica mentre l'esercito francese riuscì a sviluppare delle granate in grado di essere lanciate con il fucile ad una distanza di 400 metri.
Gli italiani ne ebbero in dotazione diverse tipologie. La più utilizzata fu la cosiddetta Sipe a sfregamento, azionata grazie ad un innesco che produceva calore. Una seconda bomba molto utilizzata fu la Thévenot, distribuita agli Arditi e utilizzata durante gli assalti a pochi metri dalle posizioni nemiche. In realtà, non si trattava di una vera e propria bomba ma piuttosto di un petardo che, con la sua potente deflagrazione, stordiva i soldati rendendoli incapaci di combattere. Infine, lungo il fronte italiano, comparve anche la "ballerina": si trattava sempre di una Thévenot a cui era stato aggiunto un manico di legno e un pezzo di tela (simile alla gonna di una ballerina) che dava maggiore stabilità al lancio.

I lanciafiamme
Un'altra importante innovazione militare che fece la sua comparsa durante la Grande Guerra fu il lanciafiamme. Anche in questo caso si trattava di un'arma che sfruttava le recenti novità nel campo della chimica in quanto il suo principio attivo era il biossido di carbonio e lo zolfo. Queste due sostanze, compresse in una bombola, venivano poi rilasciate grazie all'alimentazione ad aria. Questo provocava una grande fiammata che, nei modelli tedeschi, poteva raggiungere i 35 metri di distanza. Fu perciò uno strumento molto utile quando, durante un assalto, venivano raggiunte le trincee nemiche: i lanciafiamme costringevano coloro che le occupavano ad uscire allo scoperto.
Come molte altre invenzioni del genere, anche questa fu di origine tedesca (la Germania era il paese all'avanguardia per quanto riguardava l'industria chimica). Inventato nel 1901 dallo scienziato Richard Fiedler, il lanciafiamme venne adottato dall'esercito dieci anni più tardi con la creazione di appositi battaglioni. Fu utilizzato per la prima volta nel 1915 durante uno scontro con delle truppe inglesi che, terrorizzate, persero migliaia di uomini in soli due giorni. In seguito, anche gli altri eserciti distribuirono i lanciafiamme alle loro truppe.
Nonostante gli effetti devastanti e gli indubbi vantaggi che questo portava, il lanciafiamme non fu così determinante come altre novità (ad esempio il gas). Il suo utilizzo infatti presupponeva la partecipazione all'assalto che esponeva sempre qualsiasi soldato a grandissimi rischi. Inoltre, per farlo funzionare, era necessario rimanere in piedi e questo trasformava l'addetto al suo uso in un eccellente bersaglio per i difensori. Infine non era rara la possibilità che la bombola contenente il liquido infiammabile esplodesse, infliggendo agli attaccanti numerose perdite.
Anche gli italiani si dotarono di lanciafiamme. Ne crearono di due tipi: uno per la difesa, più grande e statico, che veniva lasciato nelle cavernette ed azionato all'occorrenza; l'altro invece, mobile e più leggero, sfruttò le innovazioni della tecnologia tedesca e venne distribuito agli Arditi, le truppe dell'esercito destinate all'attacco nell'ultimo anno di guerra.

La guerra chimica
L'utilizzo della chimica in campo militare fu una delle principali cause dell'alto tasso di mortalità verificatosi nei campi di battaglia della Grande Guerra. Così come per le altre novità del tempo, anche la ricerca scientifica nel campo della chimica aveva fatto passi da gigante tanto che in alcuni Paesi fu uno dei settori più incisivi durante la Seconda Rivoluzione Industriale (come ad esempio in Germania). Le sperimentazioni e le combinazioni di alcuni elementi portarono da un lato a dei grandi vantaggi nella vita di tutti i giorni ma anche alla nascita di sostanze nocive per la salute dell'uomo. A questo proposito, all'inizio del XX secolo alcuni eserciti iniziarono a considerare l'utilizzo della chimica anche per ottenere un indiscutibile vantaggio in una guerra contro un avversario privo delle dovute precauzioni.
Nel periodo della Grande Guerra i gas più diffusi furono due: il fosgene e l'yprite. Il primo venne inventato nel 1812 da un chimico inglese, John Davy, che lo utilizzò inizialmente per la colorazione chimica dei tessuti. Si trattava di un composto formato da cloro e fosforo che se respirato poteva provocare la morte in quanto andava ad attaccare le vie respiratorie. Il secondo invece fu scoperto mezzo secolo più tardi da un altro chimico inglese, Samuel Guthrie, che mescolò il cloro e lo zolfo. Chiamato anche "gas-mostarda" per il suo odore simile alla senape, l'yprite colpiva direttamente la cute creando delle vesciche su tutto il corpo e, se respirato, distruggeva l'apparato respiratorio.
Il fosgene venne impiegato la prima volta nel 1915 dall'esercito tedesco contro le truppe francesi attraverso il lancio di apposite bombe. L'anno successivo toccò agli italiani che, sul Monte San Michele, subirono per la prima volta un attacco chimico da parte degli austro-ungarici (29 giugno 1916). In questo caso però le bombole di gas non furono lanciate, ma vennero aperte creando così una nube tossica che venne poi sospinta dal vento.
Nel settembre 1917 fu la volta dell'yprite che venne utilizzata dai tedeschi sul fronte orientale durante la battaglia di Riga. Il mese dopo a Plezzo, sul fronte dell'Alto Isonzo, gli austro-germanici bombardarono le linee italiane con le stesse bombe assicurandosi così un vantaggio fondamentale nella Dodicesima Battaglia dell'Isonzo.
Accanto a queste due sostanze altamente tossiche, furono largamente utilizzati anche altri gas con un minor impatto sulla mortalità dei soldati. Comparvero in questo periodo i lacrimogeni ed i gas starnutenti, utilizzati già alla fine del 1914 sul fronte franco-tedesco. Sebbene provocassero diversi disturbi a livello organico, questi ultimi avevano degli effetti temporanei che non portavano alla morte.
Con la comparsa dei gas nei campi di battaglia gli eserciti si adoperarono anche per prevenirne gli effetti distribuendo ai soldati delle rudimentali maschere antigas. Non conoscendo però la composizione chimica delle sostanze, molte non funzionavano. L'esercito italiano (ma anche altri) ne distribuì un esemplare che non fu in grado di contrastare né il fosgene né l'yprite. D'altronde la stessa conoscenza sulla chimica era talmente bassa che i soldati furono istruiti, in caso di mancanza di maschere durante un attacco chimico, ad infilarsi un pezzo di pane bagnato in bocca (che simulava il filtro) coprendo poi il viso con un fazzoletto.

Le mazze ferrate
Le mazze ferrate non si possono considerare delle novità tecnologiche risalenti al periodo della Grande Guerra. Al contrario, furono un'arma molto antica, utilizzata già nel II millennio avanti Cristo data la semplicità nel costruirla: era sufficiente dotarsi di un bastone di legno (o di ferro) con un'impugnatura e applicare all'estremità della lame, dei rivestimenti di ferro o delle borchie. L'efficacia delle mazze ferrate era però molto alta e per diversi secoli (fino al Medio Evo inoltrato) furono costantemente costruite ed usate dai guerrieri impegnati nei combattimenti corpo a corpo. Con l'introduzione della polvere da sparo e il venir meno dei contatti con i nemici, questo tipo di arma iniziò a perdere importanza e venne quindi gradualmente abbandonata.
All'inizio del XX secolo però le mazze ferrate ritornarono ad avere una certa importanza. Nonostante i cannoni di gittata chilometrica, gli aerei, i carri armati e le mitragliatrici, la tattica imposta dai comandi militari era ancora quella dell'assalto alle postazioni nemiche. In questo modo i soldati, una volta superati tutti gli ostacoli, si ritrovavano nelle trincee, faccia a faccia al proprio nemico, in uno spazio angusto in cui non era agevole muoversi. Ecco quindi come le mazze ferrate furono l'ideale per questo tipo di evenienza in quanto facili da maneggiare e allo stesso tempo molto pericolose (dato che la divisa dei soldati era priva di protezioni metalliche).
Tra tutti gli eserciti europei, solo quello italiano ne fece a meno preferendo i pugnali e le bombe a mano. Anzi, proprio le mazze ferrate furono uno dei cavalli di battaglia della propaganda anti-asburgica: il 29 giugno 1916, dopo il terribile attacco con il fosgene sul Monte San Michele, le truppe ungheresi Honved entrarono nella trincea italiana per colpire a morte i feriti utilizzando proprio le mazze. Da quel momento, queste rudimentali armi divennero sinonimo della "barbarie" e della crudeltà nemica.

La vita nelle retrovie
La Grande Guerra ha coinvolto interamente la popolazione italiana. Chi ha visto il suo nucleo familiare restringersi con gli uomini chiamati al fronte, chi ha subito perdite economiche, chi ha accolto, suo malgrado, i profughi veneti e friulani scappati dopo l'avanzata austro-germanica verso il Piave.
Molto probabilmente però, chi ha subito i disagi maggiori furono gli abitanti delle retrovie, ovvero quei territori non coinvolti direttamente nelle operazioni belliche ma utilizzati come punto di appoggio per le manovre al fronte. Nei paesi della pianura veneta, del Bellunese, delle Prealpi Carniche e Giulie e della pianura friulana sorsero a partire dalla primavera del 1915 ospedali da campo per accogliere i feriti, magazzini, campi di raccolta per lo smistamento dei prigionieri, alloggi, centri ricreativi e di svago per i soldati e per tutti quei civili impegnati nella costruzione delle strutture militari.
A differenza dei centri abitati sul fronte, i paesi delle retrovie non furono evacuati. In questo caso perciò i civili furono obbligati a convivere con la presenza di quattro milioni di soldati nel corso di due anni e mezzo, adattando le proprie abitudini a quelle militari.
In alcuni casi poi, oltre alle questioni logistiche, si aggiungevano problemi di carattere sociale e politico. Nelle fasce territoriali passate dall'Austria-Ungheria all'Italia, gli abitanti dimostrarono una certa freddezza e in qualche caso aperta ostilità verso i nuovi arrivati. "Perfino nei centri che avevano una fama di nazionalismo, come Cervignano, i soldati italiani avevano trovato strade deserte e le imposte delle finestre sbarrate".
Un atteggiamento che sorprese non poco gli uomini guidati da Cadorna, infarciti di propaganda patriottica: "Io penso che i soldati italiani siano stati ingannati. Perché gli avevano detto "andiamo a liberare i nostri fratelli". Ma quando parlavano con noi, nessuno li capiva".
Tutte queste problematiche furono poi spazzate via dalla disfatta di Caporetto. Il fronte e le retrovie vennero investiti dalla rapida discesa austro-germanica ed i civili del Friuli e del Veneto orientale dovettero adattarsi ad una nuova occupazione, per certi versi ancora più pesante data la situazione disperata dell'esercito asburgico.

I feriti della Grande Guerra
Moltissimi soldati che fecero ritorno dal fronte dopo la conclusione della Grande Guerra portarono con sé i segni di questo terribile avvenimento sia a livello psicologico che a livello fisico.
Si calcola che durante la guerra rimasero feriti circa un milione di soldati italiani. Si tratta di un numero molto elevato che però non sorprende se si tengono in considerazione gli effetti devastanti delle nuove armi ed i lunghi periodi di permanenza in trincea dei soldati.
Nonostante nelle retrovie della pianura friulana e veneta si potessero contare fino a 200mila posti letto (un numero elevato se si considera come l'Austria-Ungheria ne avesse pochi di più) i soldati che giungevano feriti negli ospedali da campo andavano spesso incontro a delle complicazioni, anche mortali. All'inizio del secolo infatti la medicina e la chirurgia presentavano ancora parecchie lacune e le condizioni igienico-sanitarie, specie durante le operazioni, erano catastrofiche.
Il problema più grande era quello delle infezioni. Gli antibiotici infatti non esistevano ancora e una ferita qualsiasi, anche la più banale, poteva trasformarsi in qualcosa di molto più grave. Spesso chi giungeva in ospedale dalla prima linea era già stato colpito da un'infezione o dalla cancrena gassosa. Se la ferita si trovava su un arto, l'unica soluzione era l'amputazione. Chi invece veniva colpito all'addome, al torace o alla testa aveva pochissime possibilità di sopravvivere.

Le malattie della Grande Guerra
Durante la Grande Guerra uno dei problemi principali fu la diffusione delle malattie. La vita in trincea fu talmente difficile e precaria che era praticamente impossibile, per un soldato al fronte, trascorrere questo lungo periodo senza problemi fisici. Il freddo,l'assenza di ripari, la completa mancanza di igiene personale per diverse settimane, il cibo mal conservato e consumato in mezzo alla sporcizia assoluta e la mancanza di latrine erano solo alcune delle cause che contribuirono alla diffusione di germi, batteri e virus.
Tra le malattie più diffuse negli anni della guerra ci furono il tifo, il colera e la dissenteria. Molti inoltre si ammalarono per patologie legate alle vie respiratorie (basti immaginare un soldato zuppo d'acqua sul Carso sferzato dal gelido vento di bora o un alpino a 2000 metri di altitudine), alla promiscuità nei periodi di riposo sulle retrovie ed alle infezioni che si espandevano per una ferita, anche banale. È stato calcolato come tra gli italiani almeno 100 mila uomini morirono per malattia. Nel 1918 inoltre, come se non bastasse, giunse in Europa la terribile epidemia dell'influenza "Spagnola" che decimò l'intera popolazione (anche quella civile).
Non meno importanti poi furono le malattie psichiche dovute ai lunghi periodi passati sul fronte. Un incubo per molti soldati, giovani e non, costantemente minacciati dalla morte. Chiunque fosse schierato in prima linea era consapevole che, in qualsiasi momento, sarebbe potuto morire: i bombardamenti dell'artiglieria nemica furono incessanti ed i cecchini non mancavano mai di vigilare e di sparare sugli obiettivi. Anche solo un gesto imprudente, come alzarsi dalla trincea, poteva costare la vita ad un soldato.
La vista costante di cadaveri non aiutava certo a migliorare la situazione resa ancora più tragica dal duro atteggiamento tenuto dagli ufficiali. Ogni battaglia, come si legge in molti diari dei protagonisti, era attesa con un silenzio irreale. Privati della possibilità di ribellarsi, i soldati uscivano dalle trincee rassegnati e alle volte in lacrime sapendo che, chiunque avesse esitato sarebbe stato punito.
Fu in questi anni che nacque l'espressione "Scemo di guerra" per indicare tutti quegli uomini che, durante o dopo la Grande Guerra, furono colpiti da patologia mentale. Essendo una materia ancora oscura, tra i medici si diffuse la pratica dell'elettroshock come tentativo di cura, provocando ulteriori dolori e complicanze a coloro che ritornarono dal fronte.

La Casa dei soldati
Oltre agli ospedali, alle baracche per il riposo dei soldati e ai magazzini militari, molti paesi nelle retrovie videro sorgere le Case del Soldato, dei centri ricreativi promossi dalla Chiesa Cattolica e in particolare da Don Giovanni Minozzi. Cappellano militare durante la guerra in Libia, il prete si convinse che i soldati non avrebbero dovuto riposarsi nelle retrovie concedendosi all'alcool e ai piaceri della carne, ma frequentando piuttosto centri di ricreazione dove poter ascoltare musica, assistere a spettacoli teatrali, leggere giornali o libri, frequentare corsi di scrittura (molti soldati erano analfabeti) e scrivere lettere ai propri cari.
Questa iniziativa venne vista positivamente dai comandi militari in quanto nelle Case del Soldato si poteva accrescere la fiducia nei combattenti e far assimilare in maniera indiretta valori e idee. Nacquero così numerose iniziative rivolti ai soldati che cercavano, con leggerezza e senza annoiare, di proporre messaggi chiaramente patriottici come lo spettacolo di burattini in cui "Guglielmone" (ovvero Guglielmo II di Germania) veniva picchiato da Pulcinella vestito da soldato.
L'iniziativa di Don Minozzi ebbe un buon successo e prima della Dodicesima Battaglia dell'Isonzo si contarono 27 Case del Soldato nel settore della Prima Armata, 11 in quello della Seconda, 17 in quello della Terza, 30 in quello della Quarta e circa una decina nella Zona Carnia.

Il trattamento dei prigionieri di guerra
Una delle questioni principali durante la Grande Guerra fu il trattamento dei prigionieri di guerra. In teoria, i loro diritti dovevano essere garantiti dalla Seconda Convenzione dell'Aja, un accordo entrato in vigore poco prima del 1914 e firmato da 44 Stati.
Nella pratica però le cose andarono diversamente. Nel documento, ad esempio, venne deciso come i prigionieri dovessero ricevere la stessa razione di cibo di quella destinata ai soldati dell'esercito che li aveva catturati. Ma, ovviamente, le contingenze del momento non poterono garantire questo diritto: col passare del tempo i prigionieri aumentavano e, parallelamente, le risorse diminuivano. Coloro che furono catturati perciò ebbero un trattamento peggiore rispetto a quanto era stato deciso pochi anni prima.
Per quanto riguarda gli italiani, è stato calcolato che i soldati catturati tra il 1915 e il 1918 furono circa 600mila, la metà dei quali presi nei giorni della Dodicesima Battaglia dell'Isonzo. La maggior parte venne portata a Mauthausen (località tristemente famosa anche durante la Seconda Guerra Mondiale), a Theresienstadt (Boemia), a Rastatt (Germania meridionale) ed a Celle (vicino Hannover).
Non bisogna pensare che tutti i prigionieri erano il frutto di azioni militari.
Molti, in realtà, si "lasciarono" catturare, fuggendo dalla prima linea e presentandosi nei pressi delle postazioni nemiche. Era una scelta disperata ma dettata dalla speranza di trovare, nei campi di prigionia, delle condizioni migliori rispetto a quelle in trincea.
Invece anche la detenzione fu un'esperienza molto difficile. La mancanza di riscaldamento nelle baracche e di vestiti pesanti rendeva insopportabile il freddo pungente mentre il rancio era davvero scadente. Data la grandissima penuria di farina all'interno dell'Impero, spesso questa veniva mischiata con della polvere derivata dalla macinazione delle ghiande o della paglia mentre al posto della pasta veniva loro distribuita una sorta di zuppa di patate e cavolo.
Altri invece, convinti interventisti e patrioti, soffrirono molto di più per l'impossibilità di agire che per la fame. Carlo Emilio Gadda, catturato nei pressi di Caporetto il 25 ottobre 1917, ha lasciato una preziosa testimonianza di questo durissimo periodo. Rinchiuso nel lager di Celle, scrisse come "Soffro sì per la famiglia, per la patria, specie nei gravi momenti: allora anzi l'angoscia mi prende alla strozza. Ma il dolor bestiale, il macigno che devo reggere più grave, la rabbia porca, è quella, che già dissi: è il mancare all'azione, è l'essere immobile mentre gli altri combattono, è il non potermi più gettare nel pericolo.
Circa 100.000 italiani catturati dagli austro-ungarici e dai tedeschi non fecero più ritorno alle loro famiglie. Gli stenti, la fame, il freddo e le malattie (prima fra tutte la tubercolosi) furono le principali cause di questo grande numero di decessi.

Gli operai del fronte
Quando si parla di fronte, retrovie, trincee e baraccamenti molto spesso si pensa che tutto ciò abbia riguardato esclusivamente i militari. Invece la presenza dei civili nelle zone di guerra fu molto ampia.
Sia prima che dopo la disfatta di Caporetto molti paesi friulani e veneti non vennero evacuati e gli abitanti rimasero nelle proprie case, a stretto contatto con i soldati. Ma oltre ai residenti, nelle zone di guerra giunsero moltissime altre persone da tutta Italia: si trattava degli operai, reclutati dallo Stato per costruire la grande rete di infrastrutture necessarie per l'esercito in guerra.
Ancora oggi, chi attraversa ad esempio la pianura friulana, la zona del Basso Isonzo, del Carso isontino oppure le vallate della Carnia, le pendici del Grappa o dell'Altopiano di Asiago, percorre inconsapevolmente strade e linee ferroviarie costruite proprio da questi operai tra il 1915 ed il 1918.
Si calcola che furono poco meno di un milione i civili impegnati in questo lavoro rischiosissimo. Furono reclutati gli uomini compresi tra i 17 ed i 50 anni, provenienti in gran parte dal Meridione, i quali dovevano rimanere in zona di guerra per almeno due mesi. Le ore di lavoro giornaliere potevano oscillare dalle 6 alle 12 ore, sia di giorno che di notte (a seconda delle esigenze del momento), non esistevano giorni festivi e non c'era alcuna possibilità di scioperare.
Nonostante non fossero militari, il trattamento loro riservato era lo stesso dei soldati. Quando arrivavano a destinazione gli venivano sottratti i documenti e sostituiti con delle tessere di riconoscimento impedendo così eventuali fughe. Come se non bastasse, vennero isolati dalla popolazione del luogo in modo da non influenzare o essere influenzati dal serpeggiante disfattismo: furono così costruiti dei baraccamenti per operai dove migliaia di uomini si ritrovarono a condividere un letto per dormire, dei pasti di bassa qualità e a fare i conti con norme igieniche tutt'altro che rispettate.
Questi uomini lavorarono duramente in mezzo alle bombe che martellavano continuamente sia la prima linea che le retrovie (a causa degli aerei). Si calcola che abbiano costruito oltre 5.000 chilometri di strade e mulattiere oltre ad aver mantenuto 10.000 chilometri di rotabili nelle retrovie.
A seconda di cosa accadesse, il loro lavoro aumentava o diminuiva, si faceva più urgente o meno: oltre alle strade, era necessario costruire ponti, baraccamenti, canali, linee difensive e ferrovie. In particolare, si possono ricordare le imponenti opere successive alla Strafexpedition, alla conquista di Gorizia e alla preparazione della Decima e Undicesima Battaglia dell'Isonzo (specie in quelle sul desertico Altopiano della Bainsizza).

La convivenza tra civili e militari
Nelle retrovie gli abitanti dei paesi e dei villaggi hanno dovuto convivere per tutto il periodo della guerra con la presenza costante dei militari. Ai due milioni di civili si sommarono, dal maggio 1915 all'ottobre 1917, 4 milioni di soldati. A livello pratico, questo aspetto della Grande Guerra rappresentò senza dubbio un problema per questi civili: la macchina militare era certamente ingombrante ed i soldati, a volte, si resero protagonisti di eccessi e violenze.
Molti di loro, quando giungevano nei paesi delle retrovie, avevano appena superato un periodo piuttosto lungo in prima linea, in mezzo alle trincee e a stretto contatto con la morte. Lo stress, il nervosismo e la disperazione spesso li spinse a "sfogarsi" una volta tornati ad una vita più o meno normale. La dedizione di molti all'alcool poteva portare spesso a risse, violenze e attenzioni troppo esplicite verso le donne del paese. Episodi che si moltiplicavano e che diventavano ancora più gravi in quei luoghi che fino a pochi mesi prima erano appartenuti all'Impero austro-ungarico.
In paesi come Cortina d'Ampezzo o in tutti quei paesi del Medio e Basso Isonzo (Caporetto, Cormons, Gradisca, Sagrado, Monfalcone e successivamente anche Gorizia) sia i civili che i militari diffidavano l'uno dell'altro. La propaganda austro-ungarica nella primavera del 1915 aveva evidenziato la meschinità degli italiani, dipinti come traditori da cui aspettarsi qualsiasi cattiveria. Quella italiana invece ammonì i soldati (ma anche gli ufficiali) a tenere sempre gli occhi bene aperti: chiunque infatti poteva essere una spia o un doppiogiochista. Una confusione che aumentava anche a causa della lingua: molti contadini friulani parlavano esclusivamente friulano mentre chi abitava nelle zone del Carso, delle Valli del Natisone e nella conca di Caporetto comunicavano solo attraverso il dialetto sloveno.
Questo genere di atteggiamenti si ripeterono anche con l'occupazione austro-germanica di tutto il Friuli e della parte orientale e settentrionale del Veneto.
Per tutto il 1918, coloro che restarono nelle proprie case spesso furono scambiati per spie italiane. Chi veniva scoperto (o si credeva di aver scoperto) era destinato alla fucilazione, chi invece veniva "semplicemente" sospettato poteva essere arrestato ed internato.
In mezzo a tutta questa continua violenza però ci furono anche alcuni di casi di convivenza pacifica tra civili e militari. Alcune famiglie si ritrovarono ad ospitare nelle proprie case i soldati, a lavare loro le divise e a cucinare. Ragazzi appena maggiorenni trovarono in alcune donne del luogo una figura materna, un rifugio sicuro dalla violenza e dagli orrori della guerra. Altri invece, come i militari impegnati costantemente nelle retrovie (medici, infermieri e ausiliari), stabilirono dei contatti quotidiani con gli abitanti del paese e non mancarono casi di fidanzamenti e successivi matrimoni con ragazze del luogo.

La vita nell'Italia della Grande Guerra
La Grande Guerra fu un avvenimento eccezionale e totalizzante. Gli uomini e ragazzi arruolabili chiamati a combattere furono poco meno di 6 milioni e, considerando che all'epoca le famiglie italiane erano poco più di 7,5 milioni, si può affermare come quasi tutte ebbero un proprio componente al fronte.
Ma è certo come la Grande Guerra coinvolse direttamente o indirettamente l'intera popolazione italiana, donne e bambini compresi. Dopo il 1915 era infatti necessario sostenere la guerra economicamente ed ideologicamente e impedire la diffusione del disfattismo e delle posizioni pacifiste. Le abitudini, il lavoro, i rapporti sociali e la cultura cambiarono notevolmente rispetto al periodo pre-bellico con la nascita del fronte interno: "Tutti, a qualsiasi categoria sociale e condizione professionale appartenessero, dovevano sentirsi impegnati senza riserve".
Venne promossa ad esempio la Mobilitazione Industriale, un organismo che regolava la produzione delle fabbriche per l'interesse bellico e reclutava la manodopera. In questo modo, per la prima volta, le donne fecero la loro comparsa nelle fabbriche metallurgiche e meccaniche data l'assenza di centinaia di migliaia di operai maschi. I ragazzi tra i 15 ed i 18 anni (ma in molti casi anche più piccoli) invece vennero inviati nelle retrovie e nei campi di battaglia ad ingrossare le file del Genio militare per la costruzione delle strutture militari.
A cambiare non furono solamente gli impegni e le abitudini delle donne e dei ragazzi, ma anche quelli dei bambini. Anche loro, come tutti, dovevano abituarsi ai concetti di Patria, di guerra e di sacrificio. In questo modo i programmi scolastici delle elementari cambiarono radicalmente, focalizzando la loro attenzione su temi strettamente legati a quanto stava avvenendo sul confine italo-austriaco. Anche i giornalini a loro dedicati, le pubblicità ed i giocattoli abbandonarono le classiche tematiche infantili abbracciando la causa interventista e la guerra italiana.
Una metamorfosi che colpì anche una delle industrie più fiorenti dell'Italia del primo Novecento: il cinema. Dai kolossal a sfondo storico come "Quo vadis?" (1912), "Marcantonio e Cleopatra" (1913) e "Cabiria" (1914) si passò a pellicole dal chiaro messaggio patriottico in sostegno della guerra italiana.

Il fronte interno
In tutti i paesi coinvolti nella guerra nacque un nuovo concetto che intendeva coinvolgere l'intera nazione in questo avvenimento: il "fronte interno".
L'intento delle autorità era far partecipare al clima bellico non solo i soldati o le popolazioni che per loro sfortuna abitavano vicino al confine austro-ungarico, ma indistintamente tutti gli italiani. Parallelamente, fu anche un ottimo modo per evitare che dilagassero idee pacifiste, neutraliste o anti-italiane.
Tutto il Paese fu soggetto ad un'applicazione delle leggi in pieno stile militare con pene molto severe, paragonabili alle punizioni registrate sul fronte nel periodo di Cadorna. Alcuni reati, anche se commessi lontano dal fronte, furono giudicati da un tribunale militare: 60.000 civili ad esempio furono condannati per aver manifestato apertamente il proprio dissenso alla guerra o aver espresso pubblicamente il proprio disfattismo (specialmente dopo la disfatta di Caporetto).
Un modo di agire che non risparmiò nemmeno il clero e le loro azioni, spesso considerate ambigue. Il Vaticano infatti, dopo l'unificazione italiana, non nascondeva una certa simpatia verso l'Austria, nazione profondamente legata al tradizionalismo della Chiesa Cattolica. Inoltre, alcuni preti più sensibili al messaggio pacifista del Vangelo non esitavano a manifestare la propria contrarietà alla guerra, specialmente quando giungevano le notizie di sanguinose battaglie.
Ulteriori limitazioni alle libertà individuali furono applicate nelle regioni e nei territori considerati come "zone di guerra". Inizialmente, oltre alle regioni coinvolte in prima fila nella Grande Guerra, furono incluse anche terre più lontane come le zone costiere dell'Adriatico. Successivamente, ovunque si verificassero scioperi, proteste e agitazioni (in particolare nelle città industriali del nord) questa zona venne allargata, coinvolgendo infine tutto il settentrione dopo lo spostamento del fronte sul Piave.
Le conseguenze furono simili a quelle di una dittatura: "la zona di guerra" comportava la sospensione dei diritti di riunione e associazione, la possibilità di sciogliere circoli e Camere del Lavoro, l'impedimento di ogni attività politica e sindacale, la soppressione del diritto di sciopero.
Intere categorie di persone furono sottoposte al regime disciplinare dell'esercito in quanto soggette al servizio militare. Il complesso delle relazioni industriali fu sottratto alla libera contrattazione e sottoposto a una regolazione dall'alto.

Le donne nella Grande Guerra
L'assenza di molti uomini chiamati a combattere contro l'esercito austro-ungarico provocò delle conseguenze molto pesanti a livello economico e sociale.
La gran parte dei nuclei famigliari erano di origine contadina, legati alle consuetudini e alle tradizioni di un tempo: i membri maschili avevano il compito di lavorare fuori dalle mura domestiche mentre le donne eseguivano le proprie mansioni all'interno, accudendo i figli e sbrigando le faccende di tutti i giorni. Le cose non erano molto diverse nemmeno per le famiglie "operaie" dove l'unica differenza era l'impiego degli uomini nelle fabbriche anziché nei campi.
Una situazione che mutò profondamente nel 1915. I posti di molti contadini ed operai furono lasciati vuoti e vennero coperti da chi era restato e non sarebbe mai stato chiamato al fronte: le donne. Si trattò di un momento molto importante per la storia sociale del Paese. Il loro ruolo, per la prima volta, passò da "angelo del focolare domestico" a membro attivo dell'economia e della società collettiva.
Non che le donne fossero del tutto nuove a questo tipo di esperienza: molte di loro erano già abituate a contribuire al lavoro nei campi mentre, a livello industriale, la loro presenza era già stata registrata nel settore tessile. Ma adesso il loro numero era aumentato considerevolmente e furono presenti in settori del tutto nuovi come la metallurgia (riconvertita alle esigenze belliche), la meccanica, i trasporti e mansioni di tipo amministrativo.
Ovviamente questo processo non fu indolore: non essendo state previste delle divisioni del lavoro, le donne erano obbligate a compiere gli stessi lavori dei colleghi maschi, anche quelli più pesanti. Nei campi era necessario spostare i covoni di fieno o i sacchi di grano, accudire il bestiame e utilizzare tutte le macchine agricole. Allo stesso modo all'interno delle fabbriche dovevano essere sollevati pesi non indifferenti e compiuti gesti ripetitivi e meccanici.
Le donne presero il posto dei propri mariti (o figli) anche in quelle faccende domestiche tipicamente maschili come le questioni burocratiche, gli acquisti o le vendite di prodotti agricoli ed i problemi di natura legale.
A questa sorta di "emancipazione" lavorativa non corrispose però una maggiore libertà a livello personale: nonostante l'assenza degli elementi maschili in età arruolabile, spesso nelle case rimanevano gli anziani i quali, come da tradizione, continuavano ad esercitare il loro ruolo autoritario all'interno della famiglia. Inoltre non mancavano diffidenze e gli atteggiamenti di rifiuto da parte dei moralisti e tradizionalisti: "Nelle fabbriche metalmeccaniche la presenza femminile era talvolta avvertita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell'ordine naturale e un attentato alla moralità".
Un modo di pensare che peggiorò col tempo, quando le ragazze più giovani, sempre più spesso, si spostarono dalla loro casa per trovare un'occupazione.


L'assistenzialismo femminile durante la Grande Guerra
Un altro aspetto che coinvolse la sfera femminile durante la Grande Guerra fu quello dell'assistenzialismo, sia di matrice cattolica che laica. Diverse donne si impegnarono nell'organizzare centri di incontro per la promozione di iniziative a sostegno della guerra come le raccolte di denaro o materiale destinati alle famiglie dei soldati impegnati al fronte oppure l'organizzazione di visite ai soldati stessi quando si trovavano in licenza o nelle retrovie.
Ad impegnarsi in questo tipo di assistenza furono specialmente donne di estrazione borghese ed aristocratica dotate di una buona disponibilità economica. Il loro ruolo si mantenne su binari molto più tradizionali e, per la mentalità del tempo, decorosi. Applicando le loro capacità e le loro conoscenze di economia domestica, seppero riunirsi ad esempio in gruppi per la raccolta di pellicce ed indumenti usati in modo da crearne altri da inviare al fronte. Inventarono degli indumenti "antiparassitari" che prevenivano il problema dei pidocchi nelle trincee oppure organizzarono la raccolta dei noccioli di pesche e albicocche che, opportunamente lavorati, si trasformavano in sapone.
Parallelamente a questo tipo di assistenza "materna" si sviluppò anche quello in campo medico con la mobilitazione di donne e ragazze volontarie della Croce Rossa (e di altre associazioni di soccorso). Gli ospedali nelle retrovie e non solo si riempirono di infermiere impegnate nel prestare soccorso e sollievo ai soldati feriti e reduci dai terribili periodi passati in trincea. Secondo alcuni calcoli, nel 1917 le volontarie della Croce Rossa furono circa 10mila a cui vanno sommate altrettante facenti parte di altre associazioni.
La loro figura fu ben più celebre rispetto alle altre donne italiane della Grande Guerra. Presenti nelle retrovie in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile e con lo scopo di curare il corpo di un uomo attraverso il contatto fisico, le infermiere divennero un simbolo della femminilità che si fondeva con l'erotismo. Un'immagine sfruttata anche dalla propaganda: "Numerosissime sono le cartoline in cui esse, graziosamente racchiuse nelle loro divise non prive di civetteria, occhieggiano in direzione di gagliardi soldati, li abbracciano, assumono atteggiamenti scopertamente seduttivi".
D'altro canto la relazione amore e guerra compare anche in molte canzoni dell'epoca cantate dai soldati o nei romanzi come il celeberrimo "Addio alle armi" di Hemingway.

La scuola durante la Grande Guerra
Anche la scuola durante la Grande Guerra si trasformò in una macchina per il sostegno patriottico. A cambiare furono in particolare le materie che, dopo un'attenta revisione, proposero programmi pedagogici legati al tema del conflitto e discussioni legate all'attualità. L'obiettivo era far capire anche ai bambini cosa fossero la Patria, la guerra per Trento e Trieste, l'eroismo militare e farli familiarizzare anche con gli aspetti più tragici della guerra come le violenze quotidiane e la morte.
Nelle ore di italiano i maestri leggevano e facevano leggere articoli di giornali che parlavano di guerra e di quanto stava accadendo al fronte. Grande rilevanza veniva data alle descrizioni delle molte illustrazioni che erano pubblicate su questi periodici, prime fra tutte quelle famosissime de "La Domenica del Corriere". Il programma di storia invece proponeva approfondimenti sulla guerre di indipendenza, la nascita del Regno d'Italia e tutta una serie di lezioni "patriottiche" come "Entusiasmo del popolo italiano per la guerra", "Emigrati italiani tornati in patria per partecipare alla guerra" o "Il 24 maggio 1915".
Nel 1917 divenne piuttosto celebre una rivisitazione di Pinocchio, il celebre burattino di legno inventato da Carlo Collodi nel 1881. Suo nipote scrisse "Il cuore di Pinocchio. Nuove avventure del celebre burattino" ambientato tra il maggio 1915 e la morte di Francesco Giuseppe. Al centro non ci fu più il naso che ad ogni bugia si allungava, ma le gambe e le braccia di legno che ricordavano metaforicamente le amputazioni dovute a ferite di guerra.
L'orografia del Carso, i territori ed i luoghi del fronte, il nome dei comuni conquistati dall'inizio della guerra ed i problemi logistici che affrontava l'esercito erano stati inseriti nel programma di geografia mentre in quello di scienze venne dato grande spazio alle novità tecnologiche n campo militare.
I bambini così scoprirono le armi utilizzate al fronte, gli esplosivi, la crudeltà dei gas asfissianti e gli affascinanti aeroplani. Non mancavano poi riferimenti alle tecniche di costruzione delle trincee, dei camminamenti, dei reticolati e l'organizzazione delle retrovie. Infine, venne suggerito agli insegnanti di educazione fisica di sostituire le ore di ginnastica e sport con visite agli ospedali militari, alle fabbriche riconvertite alla produzione militare e ai campi di prigionia.
Gli insegnanti avevano anche il compito di sorvegliare e segnalare i casi di bambini che si dimostrassero poco inclini a sostenere la guerra e lo sforzo patriottico. Una bambina ad esempio, in un tema, scrisse: "Chi fa la guerra sono tutti poveretti perché di signori non ce n'erano lì in terra", riportando delle considerazioni sentite dal padre, ricoverato in un ospedale dopo essere stato ferito al fronte. La maestra, dopo aver chiesto dove avesse sentito queste cose, strappò il compito e diede un ceffone alla piccola. Nulla doveva turbare il crescente patriottismo dei bambini.

I giochi dei bambini durante la Grande Guerra
Fino alla fine del XIX secolo, i bambini erano stati poco considerati all'interno delle società e del nascente mercato di massa. Al contrario, all'inizio del Novecento iniziarono ad essere visti come dei potenziali lettori e consumatori di beni. Nacquero così i primi giornalini a loro dedicati e venne avviata la produzione in serie dei primi giocattoli che riscossero un notevole successo. Fu perciò piuttosto facile, nel 1915, riconvertire queste due novità in chiave patriottica in modo da coinvolgere anche i più giovani nella partecipazione alla Grande Guerra.
Il "Corriere dei Piccoli", probabilmente il più celebre giornale dei ragazzi della storia d'Italia, dette il suo contributo. Diverse immagini rappresentavano i fanciulli intenti a dormire nel proprio lettino mentre sognavano di partecipare ad azioni eroiche sul fronte oppure abbracciati ai propri soldatini. Al suo interno poi si potevano anche leggere storie come quella di "Cirillino, una vera peste incontentabile e inarrestabile nei suoi capricci, si placa soltanto quando il padre, ritirati i suoi risparmi, va a comprare due milioni di cartelle del prestito nazionale". È evidente come vignette di questo tipo cercassero di fare breccia non solo sui più piccoli, ma anche sui loro genitori.
Un altro esempio è quello delle cartoline che invitavano a seguire gli esempi dei bambini raffigurati su carta. Da bravi piccoli italiani, rinunciavano a saltare alla corda per non consumare troppo la suola delle scarpe oppure cercavano di non fare macchie sui fogli con la propria penna in modo da evitare gli sprechi. Le stesse cartoline poi suggerivano di non mangiare nulla fuori pasto e di non utilizzare lo zucchero, un bene che scarseggiò per tutto il periodo bellico.
Anche i giocattoli e i giochi di gruppo cambiarono nel 1915. Nei negozi non si trovavano più orsacchiotti ma imitazioni di mortai, di grossi cannoni da assedio e di fucili. Anche il piccolo Ettore Bulligan ricorda come "avevo fatto amicizia con i bambini delle case vicino e giocavo con essi, naturalmente alla guerra, e avevo l'elmetto, le giberne e la maschera antigas, mi mancava, però un fucile".
La Grande Guerra aveva coinvolto proprio tutti.

L'Italia al cinema durante la Grande Guerra
La collettivizzazione dell'idea della guerra e la partecipazione di un'intera Nazione al conflitto venne attuata in diverse forme. Nei giornali e sui muri delle città campeggiavano ovunque grandi manifesti che invitavano i cittadini a sostenere economicamente lo sforzo italiano attraverso la sottoscrizione del Prestito Nazionale. Moltissime pubblicità, come quelle di alcoolici di largo consumo e giocattoli per bambini, non esitavano a sfruttare l'immagine dei soldati impegnati al fronte.
Un altro modo fu quello di utilizzare il nascente fenomeno del cinema. Si trattava di un'invenzione recente (1895) ma che conquistò immediatamente tutti, sia il ceto borghese che quello proletario e contadino. A differenza della stampa infatti, le immagini proiettate su uno schermo avevano un significato semplice e immediato. Tutti potevano accedere ai cinematografi: i prezzi erano molto bassi e non era richiesto un certo tipo di vestiario o il rispetto del galateo.
Fu così che la fiorente industria cinematografica italiana (che nei primi anni del XX secolo era già stata in grado di produrre alcuni kolossal) intuì come la guerra fosse un soggetto perfetto per dei nuovi film. Parallelamente, i sostenitori del conflitto compresero come la proiezione potesse essere un ottimo modo per diffondere solidarietà e sostegno alla causa italiana.
Nel settembre del 1915 uscì quindi nelle sale "Sempre nel cor la Patria!" di Carmine Gallone. La storia narra di una giovane donna, sposata con un austriaco, che allo scoppio della guerra decide di tornare in Italia e muore eroicamente sventando un'azione anti-italiana affidata proprio al marito. A questo ne seguirono moltissimi altri tanto che alla fine del 1916 le pellicole dedicate alla guerra italiana erano 130 (tra cui alcune rivolte anche a bambini come "La guerra e il sogno di Momi" in cui un bambino sogna di salvare la vita al padre, impegnato al fronte).
Nonostante la qualità di molti film fosse piuttosto scadente, senza dubbio riuscirono nel loro intento: migliaia di persone accorrevano per vederli e familiarizzarono con parole e concetti come "Patria", "Vittoria", "Terre irredente".
Ma dopo due anni di successi, il connubio tra cinema e guerra subì una brusca frenata a causa del pessimismo oramai dilagante in diversi strati della popolazione. "Maciste l'Alpino", uscito alla fine del 1916, narrava la vita al fronte e le battaglie combattute tra cazzotti e calci nel sedere. Un'immagine alquanto fantasiosa della realtà e che ormai non faceva più sorridere nessuno.

La fuga dopo Caporetto
Una delle pagine più drammatiche della storia d'Italia fu la fuga dei civili dopo la disfatta di Caporetto. È stato calcolato che a muoversi verso ovest furono poco meno di 230mila persone (quasi il 21% della popolazione): 134mila dal Friuli, 31mila dalla provincia di Belluno, 45mila da quella di Treviso e poco meno di 20mila da quella di Venezia.
I primi a spostarsi furono gli abitanti di Cividale del Friuli e delle zone limitrofe il 25 ottobre 1917. Nonostante le autorità civili avessero comunicato che non ci fosse alcun motivo per essere allarmati, gli abitanti videro i soldati gettare le armi e scappare in tutta fretta. Il giorno dopo gli udinesi sentirono i primi colpi delle armi austro-germaniche. La stazione ferroviaria fu presa d'assalto così come Viale Venezia, la grande strada che dal centro città porta ancora oggi verso Codroipo e il ponte della Delizia, sul Tagliamento. Stessa cosa accadde nel Friuli collinare (Tarcento, San Daniele del Friuli e Gemona del Friuli), in Carnia e nella pianura friulana. Si trattava di una corsa contro il tempo: era necessario giungere nei pressi dei ponti sul Tagliamento prima che i soldati li facessero brillare per rallentare l'avanzata austro-germanica.
Chi ci riuscì visse per oltre un anno lontano da casa propria, spesso in qualche sperduto villaggio del Meridione. Le famiglie più fortunate riuscirono a restare unite mentre altre, nella confusione, si divisero. In particolare, a smarrirsi e a rimanere soli furono i bambini e le donne, costretti a vivere nella povertà oppure a svolgere lavori umilianti. Altri invece si mossero troppo tardi e dovettero tornare indietro, scoprendo molto spesso che la propria casa era già stata saccheggiata o addirittura occupata dai soldati.

I ricordi di un bambino fuggito
Migliaia tra uomini, donne e bambini scelsero, alla fine di ottobre del 1917, di abbandonare le proprie case per scappare dall'avanzata austro-tedesca. A questo proposito esistono centinaia di diari, ricordi, articoli che narrano le emozioni, le sensazioni e i sentimenti provati in quei giorni drammatici e frenetici. Colpiscono le descrizioni del paesaggio, tipicamente autunnale, dove qualsiasi passo è scandito dalla pioggia incessante, dal fango che aveva invaso campi e strade, dalla confusione facilmente immaginabile.
Probabilmente, alcune delle pagine più toccanti furono quelle scritte a posteriori da uomini e donne che all'epoca dei fatti erano dei bambini. Nessuno, meglio di loro, riuscì a cogliere la frenesia e la paura di quei giorni, i particolari che oggi fanno capire quanto la disfatta di Caporetto abbia segnato profondamente la storia d'Italia.
Ettore Bulligan era un bambino udinese di 8 anni, figlio di un artigiano edile che proprio poco prima della Dodicesima Battaglia dell'Isonzo tornò in Friuli (era emigrato con tutta la famiglia in Svizzera). Il 27 ottobre 1917 suo padre decise di abbandonare nuovamente Udine temendo l'arrivo delle truppe austro-germaniche che ormai stavano scendendo velocemente dalle Valli del Natisone.
"Chiusa alle spalle la porta del nonno, sotto una fitta pioggia gelida, nel buio più assoluto, in fila indiana e in silenzio, cominciammo la nostra odissea".
A differenza di molte altre famiglie, la sua riuscì a raggiungere i ponti sul Tagliamento e a dirigersi verso Pordenone da dove partirono i treni di profughi verso Padova. Ricorda come la sua famiglia non poté seguire la strada più semplice (la Udine-Codroipo-Pordenone) in quanto riservata ai militari e quindi dovette proseguire lungo le vie secondarie di Basaldella, Pozzuolo, Nespoledo, Lestizza ed infine Madrisio.
Giunti a Pordenone, vi fu il primo aiuto organizzato: a ogni profugo erano state distribuite dalla Croce Rossa una pagnotta e una scatoletta, ma noi bambini ci eravamo messi in fila più volte e così ci eravamo procurati una piccola scorta di viveri. E per fortuna che ci arrangiammo, perché nessuno si interessò più di noi e la fame fu una compagna presente per tutto il viaggio".
Come molte altre famiglie, anche quella di Ettore Bulligan giunse in Meridione, in Irpinia. E come molti altri, anche lui visse sulla sua pelle l'isolamento per il semplice fatto di essere un profugo: ci fu il problema della lingua, della scuola, del lavoro, di una casa condivisa con altre 5 famiglie. Tutto questo fino alla primavera del 1919, quando un giorno il padre disse "Tirait doncje la vuestre robe che o tornin a Udin!" ("Radunate le vostre cose che torniamo a Udine".

Coloro che sono rimasti
Molti friulani decisero di scappare quando ormai era troppo tardi. Le file interminabili formatesi lungo le strade principali, i posti di blocco e la confusione totale rallentò enormemente la fuga di coloro che partirono alla fine di ottobre. Il 31 tutti i ponti sul Tagliamento vennero fatti brillare e coloro che si trovavano nei pressi di Latisana, Madrisio, Codroipo e Ragogna rimasero sulla riva sinistra. Non rimaneva quindi che riprendere la via del ritorno sperando che l'occupazione austro-germanica non fosse così terribile come molti la immaginarono.
Alcuni trovarono conforto nelle parole degli anziani che avevano già vissuto, mezzo secolo prima, sotto l'Austria-Ungheria e che allora non si stava male.
Altri, man mano che giungevano le truppe austro-germaniche, si dimostrarono felici di questo arrivo. Da un lato effettivamente era rimasta nella cultura popolare una predilezione per gli Asburgo piuttosto che per i Savoia. Ma dall'altra, la paura dei soldati tedeschi convinse molte persone a mostrarsi ben disposte per evitare qualsiasi tipo di problema.
Eppure il 1918, nonostante queste speranze, fu un anno veramente difficile. A parte il clero locale, quasi tutti gli amministratori (sindaci, assessori, medici, maestri ) e la borghesia in generale riuscì a fuggire, lasciando in Friuli e in Veneto la fetta più povera della popolazione. Questa fu costretta a subire le decisioni prese dai comandi militari i quali, per necessità, ordinarono di requisire qualsiasi cosa potesse tornare utile all'esercito sul Piave. "Quando dovevano fare una requisizione, prima circondavano nel massimo silenzio l'abitato. Poi mettevano sentinelle armate nei vari punti del paese per impedire qualunque movimento. Dopo entravano nelle piazze con camion e carrette. Si dividevano i vari settori. Da noi, senza domandare permesso e senza salutare, entrarono prima nel cortile e dopo nella stalla. Quando mio nonno li seguì, vide che avevano già slegato due vitellini di due e tre mesi. Il povero nonno domandò quello che intendevano fare. Ci avevano già portato via il cavallo e una decina di bestie. Uno di quelli che portavano il fucile urlò "Ruic!" [Silenzio] E mostrò che se non la finiva avrebbero portate via anche le vacche, che sembravano volessero rompere le catene per andare verso i loro figli spinti e tirati fuori dalla porta: teneri muggiti di dolore e di richiamo".

I prigionieri di Caporetto
Un altro tipo di testimonianze di quei giorni sono quelle degli italiani imprigionati durante la Dodicesima Battaglia dell'Isonzo. Secondo le relazioni ufficiali dei comandi militari, dal 24 ottobre al 4 novembre vennero catturati poco meno di 300mila, la metà di tutti i prigionieri italiani della Grande Guerra. Arrestati lungo le strade e nei paesi dove si tentò di organizzare qualche azione di resistenza, questi uomini furono condotti nei campi di prigionia nel cuore dell'Impero austro-ungarico e tedesco. Nelle loro memorie sono narrati lo smarrimento, la tristezza, la paura per quanto stava accadendo e le descrizioni dei luoghi che fino a due settimane prima erano stati gli scenari delle battaglie.
Il 31 ottobre 1917 Bartolomeo Pernigotti scrisse sul suo diario: "Che differenza da quando l'avevo veduta un mese e mezzo prima [Udine]. Una casa bruciava, i tedeschi facevano la films [sic]. Noi si sostò in un albergo dove un ottimo Chianti rinvenuto in un fiasco ci allietò un poco unitamente a qualche mela.
Era un davvero triste spettacolo quello del Carso. Completamente ingombro da cannoni, carriagi d'ogni genere e tutto saccheggiato".
Andrea Pintus, un giovane soldato sardo di 22 anni, ricorda invece i soldati "bestemmiavano, maledicevano la guerra, il nemico, che li obbligava a lasciare quei luoghi dove tanto avevano lavorato per costruirsi i ricoveri, per altri forse peggiori sprovvisti di tutto".

I bambini fuggiti
Assieme alle donne, la categoria dei bambini fu quella che subì le maggiori conseguenze dopo la fuga dal Friuli e dal Veneto orientale. Si calcola che il 30% dei profughi fu composto da bambini sotto i 15 anni che, in molti casi, persero il contatto con il loro nucleo famigliare di origine. Centinaia di fanciulli ad esempio invasero le strade di Milano i quali vennero progressivamente ospitati presso orfanotrofi ed istituti religiosi. Molti di loro erano rimasti effettivamente senza genitori a causa della guerra ma una parte si era smarrita durante il viaggio, salendo ad esempio su un treno diverso rispetto quello dei propri genitori.
I piccoli si trovarono così completamente privi di punti di riferimento. Molti comuni dovettero organizzare degli asili nido, corsi scolastici, ricreatori, scuole di lavoro che dessero loro la prospettiva di un futuro. Nelle città questo tipo di iniziative furono più facili grazie alla presenza di strutture già esistenti mentre nelle campagne le cose furono molto più difficili. In alcune zone del centro Italia nacquero delle colonie che alternavano lo studio ai lavori nei campi, cercando così di inserire i giovani all'interno di una nuova realtà. Una delle problematiche principali infatti era proprio quella dell'emarginazione.
Come gli adulti, anche i bambini profughi furono visti come degli estranei: "i ragazzi siciliani ci menavano, pensavano che noi fossimo la causa dei loro guai. Ci chiamavano rossi del nord. Non avevano mai visto la neve e quell'inverno, dopo il nostro arrivo, era nevicato più volte. I ragazzini del posto ci canzonavano: sti profughi ci hanno portato 'a neve".
I più fortunati, nei mesi successivi, riuscirono a ricongiungersi ai propri genitori o parenti. In quel caso i bambini poterono contare sull'affetto familiare ma i problemi rimasero gli stessi: la povertà era sempre all'ordine del giorno e molti di loro, anziché frequentare le scuole del posto, venivano tenuti a casa per sbrigare le faccende domestiche (specialmente se la madre era costretta a lavorare in assenza del padre). In questo modo le due comunità , quella autoctona e quella dei profughi, rimasero sempre divise.

Le donne profughe e la povertà
La disfatta di Caporetto e la conseguente fuga dei civili confermò come in questi anni fosse emersa una nuova figura all'interno della società italiana: la donna. Già prima dell'ottobre 1917 le donne avevano assunto in diversi casi il ruolo di capo-famiglia data l'assenza dei mariti o dei padri, impegnati nell'esercito. Con lo spostamento nelle altre regioni italiane, dovettero affrontare problematiche ancora più difficili.
Data la mancanza di figure maschili, tradizionalmente più autorevoli, le donne divennero soggetti facilmente attaccabili nei tanti paesini del centro e sud Italia. Molte di loro facevano fatica ad accedere ai sussidi giornalieri per i profughi di guerra, i bagagli con cui erano partite spesso vennero smarriti durante il trasferimento e, mancando i soldi, vissero per molti mesi con lo stesso vestito con cui erano partite. Qualsiasi malattia poi, anche la più banale, diventava un grave problema in quanto non era possibile accedere a nessuna struttura sanitaria.
Si instaurava così un circolo vizioso, come narra una profuga giunta a Cerignola, in provincia di Foggia: "fuggita dal mio caro paesello, durante l'invasione nemica, senza aver potuto portare con me neppure il necessario per cambiarmi, fui menata qui, in questa città delle Puglie. Qui non si può avere neppure l'acqua per lavarsi e devo pagarla a caro prezzo, diffalcando la spesa dall'esigua paga di lire due al giorno. Con l'enorme crescente rincaro dei viveri devo pensare a tutto con sole due lire; né posso andare in cerca di decorosa occupazione, vergognandomi di uscire dal mio ricovero così malandata e indecentemente vestita".
Senza soldi, non c'era nemmeno la possibilità di cercare lavoro. A questo si aggiunse poi il razzismo degli abitanti del posto che videro, in questi profughi del nord, delle vere e proprie minacce sia per l'esigua offerta di lavoro sia per le dicerie che si diffusero in larga scala. Una donna di San Pietro del Natisone, trasferita in un piccolo paese vicino Catania, ricorda come "siamo abbastanza mal visti che questa giente e peggio delle bestie. Ci guardanno male a noi e noialtri non potiamo più soportare. Siamo qui come i zingari anche peggio tutti straciati"
Spesso molte profughe furono così costrette a chiedere l'elemosina e, nei casi più disperati, ad abbandonare i propri figli.

Le donne profughe e il lavoro
Come per gli uomini, anche per le donne la possibilità di sopravvivere nel periodo di allontanamento dalle proprie case era legato al lavoro. Chi ebbe la fortuna di trovarne uno poté affrontare più agevolmente le mille difficoltà della vita di ogni giorno dato che il sussidio che avrebbe dovuto garantire il sostentamento economico dei profughi spesso non veniva distribuito.
Secondo le più recenti ricerche sull'argomento, le donne che trovarono lavoro avevano un'età compresa tra i 15 ed i 40 anni. In molti casi vennero impiegate nelle fabbriche che in quell'anno riconvertirono la loro produzione in armi e munizioni per l'esercito oppure nei laboratori che confezionavano abiti civili e militari. Spesso però la manualità femminile dovette adattarsi a lavori tipicamente maschili, pesanti e pericolosi: dalle risaie nella pianura padana alle industrie meccaniche e siderurgiche dove, in mezzo a mille inconvenienti, potevano almeno ambire ad un salario superiore rispetto alla media.
Certo è che molti approfittarono dello stato di debolezza delle donne profughe, costrette a cercare lavoro e ad accettarlo in qualsiasi condizione. Si registrarono casi di ricatti, pagamenti al ribasso e diversi soprusi, sia a sfondo economico che a quello sessuale.
Specialmente colpite, in questo caso, erano le ragazze più giovani: lavori come le cameriere per i ricchi possessori di terre del sud erano offerti alle ragazze più avvenenti che, ovviamente, innescavano le peggiori dicerie in ambienti storicamente molto conservatori. Le profughe erano viste quindi come prostitute, donne pigre, disinteressate alla vita dei propri figli. Alcune di loro, per poter sopravvivere, furono effettivamente costrette a prostituirsi. Diversi uomini, nelle grandi città del centro e del sud Italia approfittarono della debolezza di queste figure organizzando una vera e propria "tratta delle profughe".

Le canzoni della Grande Guerra
Una delle tante eredità che una guerra lascia ai posteri è quella delle canzoni. Da sempre infatti la musica ha fatto parte della vita dei soldati nei campi di battaglia o nelle retrovie. Accompagnate da un testo facilmente memorizzabile, vennero composte per aumentare il senso di appartenenza ad un gruppo, per sollevare gli animi oppure per esorcizzare la paura della morte, sempre in agguato. Altre invece narrano di amori lontani, di speranze, di lontananza dalla casa e dall'affetto materno o glorificano le gesta eroiche esaltandone il coraggio e il sacrificio.
Alcune composizioni nate durante una guerra furono considerate talmente importanti e significative da essere utilizzate come inni nazionali di uno Stato. È il caso ad esempio di "Fratelli d'Italia", scritto da Goffredo Mameli nel 1847 e cantato durante le guerre risorgimentali oppure de "La Marsigliese", l'inno francese intonato nel 1792 durante la Rivoluzione.
Altre invece sono oggi meno conosciute ma non per questo meno interessanti. È il caso delle canzoni composte e cantate durante la Grande Guerra e che oggi può capitare di riascoltare in qualche festa o evento con la presenza di un coro militare. I testi (alle volte in dialetto) raccontano le gesta di un battaglione, il dolore per i lutti, descrivono i luoghi delle battaglie oppure le speranze di rivedere la propria amata che aspetta il soldato a casa.
Tra tutte, la più celebre è senza dubbio "La leggenda del Piave", scritta nell'estate del 1918 e per diversi anni cantata ogni 4 novembre, anniversario della vittoria sull'Austria-Ungheria. Molto nota divenne anche "Monte Grappa tu sei la mia Patria", anche questa nata nel 1918 per incoraggiare i soldati italiani a resistere contro gli attacchi austro-ungarici sul monte veneto.
Accanto a testi indubbiamente seri, non mancano canzoni più leggere, auto-ironiche e caratterizzate da una buona dose di allegria come quelle degli Alpini.

Il Milite Ignoto
Alle 8 del mattino del 29 ottobre 1921 partì dalla stazione ferroviaria di Aquileia un treno che entrò nella storia d'Italia. Si trattava del convoglio che, in cinque giorni, portò la salma del Milite Ignoto a Roma per essere tumulata all'interno del Vittoriano il 4 novembre. Un viaggio emozionante attraverso 5 regioni e 120 stazioni dove centinaia di migliaia di persone lungo i binari resero omaggio a questo corpo senza nome, simbolo del sacrificio per amore della Patria. Un viaggio accolto con entusiasmo e partecipazione, paragonabile a "un nuovo giro d'Italia, certo meno gioioso ma immensamente più solenne di quello dei ciclisti, e più importante per cementare il senso dell'unità nazionale sotto il segno del lutto collettivo".
Il cerimoniale, proposto nell'agosto del 1920 dal colonnello Giulio Douhet che voleva onorare con una grande manifestazione gli oltre 650mila caduti durante la Grande Guerra, ebbe come momento centrale la scelta della bara, avvenuta il 28 ottobre 1921 all'interno della Basilica di Aquileia.
Protagonista fu Maria Bergamas, una donna triestina eletta quale simbolo di tutte le madri che avevano perso un figlio durante la Grande Guerra. Nel suo caso, lei non aveva più rivisto Antonio, il volontario irredento che scappò da Gradisca d'Isonzo (in territorio austro-ungarico fino al 1918) e che morì sull'Altopiano di Asiago durante la Strafexpedition.
Sorretta da quattro militari decorati con la medaglia d'oro, Maria teneva in mano un fiore bianco che avrebbe dovuto gettare su una delle 11 bare contenenti i resti di altrettanti corpi, rinvenuti in 11 luoghi simbolici della guerra italiana (Rovereto, Altopiano di Asiago, Monte Grappa, Dolomiti, Montello, Basso Piave, Cadore, Basso Isonzo, San Michele e il tratto da Castagnevizza al Mare Adriatico). Contravvenendo al cerimoniale, davanti alla seconda bara prese il suo velo nero e lo appoggiò sopra, decretando così la sua scelta. Il feretro così venne collocato "sull'affusto di un cannone, trainato da cavalli addobbati a lutto, e, seguita da un corteo di reduci e cittadini, posta in un vagone ferroviario".
Contemporaneamente le altre dieci bare furono tumulate all'interno del Cimitero degli Eroi di Aquileia, dietro la Basilica, in cui troverà posto anche Maria dal 1952.
Come era accaduto già in Francia ed in Gran Bretagna l'anno prima, anche in Italia tutti si identificarono in quella bara di quercia: il dolore per la perdita dei propri cari si trasformò in orgoglio e in sentimento patriottico, un modo per cancellare il dolore di tante perdite e tragedie patite da tutta la popolazione durante la Grande Guerra.

Il viaggio del Milite Ignoto
1^ tappa: 29 ottobre
Partenza ore 8.00 da Aquileia; Udine; Treviso; Mestre; Venezia Santa Lucia con arrivo in serata e sosta notturna.

2^ tappa: 30 ottobre
Partenza ore 8.00 da Venezia Santa Lucia; Padova Centrale, Rovigo, Ferrara, Bologna Centrale con arrivo in serata e sosta notturna.

3^ tappa: 31 ottobre
Partenza ore 6.24 da Bologna Centrale; Pracchia; Pistoia; Prato; Firenze Santa Maria Novella; Arezzo con arrivo in tarda serata e sosta notturna.

4^ tappa: 1 novembre
Partenza ore 9.45 da Arezzo; Chiusi; Orvieto; Orte; Roma Portonaccio con arrivo in serata e sosta notturna.

5^ tappa: 2 novembre
Partenza ore 8.43 da Roma Portonaccio; Roma Termini con arrivo alle ore 9.00. Trasferimento presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli

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